IT
Landskin è un’azione coreografica ispirata
al racconto “Dreamingtime”, archetipo
della cultura aborigena austaliana.
In scena lo spazio è interamente
coperto da foglie di eucalipto fresche e
profumatissime, due danzatrici emergono
dalla terra come esseri vegetali e
interagiscono completamente avvolte da
texture proiettate dall’alto ricavate da
immagini di cortecce. Il loro corpo nudo
trattato con prodotti argillosi assorbe
la luce, cambia la percezione della
pelle, fino a diventare un tutt’uno con
le immagini. Questa pelle elettronica
evoca un territorio ideale, uno spaziogiardino
nel quale il corpo e l’occhio
agiscono in simbiosi, condividendo una
scrittura astratta e rituale. Gli aborigeni
australiani, ad esempio, si dipingono
il corpo con segni che appartengono
al linguaggio della natura o del sogno,
considerano questo rapporto come una
forma d’arte. Nella performance le
immagini delle cortecce si espandono,
prendono una forma abitabile dai corpi
dei danzatori, si trasformano in una pellemadre
dove adagiarsi e comporre opere
libere che nascono e muoiono in un gioco
dal vivo di “land art elettronica”.
Davide Venturini
Primo studio 30’: (Luglio/Ottobre 2016)
EN
Landskin is a coreographic action inspired
by the poem “Dreamingtime” archetype
of Australian aboriginal culture. On stage
the space is entirely covered by fresh and
fragrant eucalyptus leaves, two dancers
emerge from the earth as vegetable
beings and interact completely wrapped
by texture, made from bark images,
projected from above. Their naked body
treated with clay cosmetic products
absorbs light, it changes the perception
of the skin, and it becomes one with the
images. This electronic skin evokes an
ideal territory, a space-garden in which
the body and the eye act in harmony,
sharing an abstract and ritual writing.
Australian Aborigines, for example, paint
their bodies with signs belonging to the
language of nature and dreams, consider
this relationship as an art form. In the
performance the images of bark picture
are expanded, take an “habitable” shape
for dancers’ bodies, they turn into a skinmother
where lie down and compose
works which are born and die in a live
game of “electronics land art”.
Davide Venturini
First study 30’ (July/October / 2016)
F
Landskin est une action chorégraphique
inspirée par le poème “Le Temps du
Rêve” archétype de la culture aborigène
d’Australie. Sur scène, l’espace est
entièrement recouvert par des feuilles
fraîches et parfumées d’eucalyptus. Deux
danseuses sortent de terre comme des
êtres végétaux et interagissent, langées
par des textures projetées par-dessus
représentant des images d’écorces. Leur
corps nu, traité avec de l’argile, absorbe
la lumière et change la perception de
la peau, jusqu’à se mélanger avec les
images. Cette peau électronique évoque
un territoire idéal, un espace-jardin
dans lequel le corps et l’oeil, agissent
en symbiose et partagent une écriture
abstraite et rituelle. Les aborigènes
d’Australie, par exemple, peignent
leurs corps avec des signes appartenant
à la langue de la nature ou des rêves,
et considèrent ce rapport comme une
forme d’art. Dans cette performance, les
images des écorces élargies prennent une
forme vivante des corps des danseuses et
se transforment en une peau-mère. Elles
se couchent, composent des œuvres,
naissent et meurent dans un jeu en direct
de “Land Art Electronique”.
Davide Venturini
Premiere étude 30’: (Juillet / Octobre 2016)
LANDSKIN di Luca Farulli
Il tema del mito torna, in forma ancor più ancestrale e profonda, in Landskin. Skin è, infatti, scorza e superfice di un genere non qualsiasi, essa è pelle di un corpo vivente, mappa su cui il tempo ha scritto, lasciando tracce della vicenda che quel corpo, quella pelle hanno attraversato. Si tratta di un linguaggio tutto fatto per i sensi, fatto di colore-luce, di odore, di fruscio. Lo Skin di cui ci parla TPO è pelle-storia, non scorza smalto di protezione refrattario ad azioni e passioni del vivente; pelle che invita ad entrare dentro al vissuto, all’animato: questo scrigno di immagini. Riconoscere alla terra una pelle di tal genere, significa insegnare che la sua superficie è piena di voci, di brividi della natura che occorre reimparare a legge, con il fiuto come di un animale, per il quale fiutare lo skin della terra, equivale al nostro leggere in un giornale le notizie relative ad eventi, accadimenti: solo che qui, si tratta di avvenimenti legati ad un tempo lontano, ancestrale, di cui abbiamo perduto la via di accesso. In questo senso, il teatro polisensoriale di TPO, estende la validità di quanto Bert Brecht fa dire al suo Galileo in Vita di Galileo, secondo cui egli insegnerebbe al proprio discepolo Sarti a vedere. Il teatro di TPO insegna, infatti, ad ascoltare, a sentire, ad odorare, a toccare, a riprendere coscienza di tali attività, facendo capire al proprio pubblico, che tali azioni attivano immagini, quelle immagini che sono riposte in noi ed attendono di esser salvate, riportate ad esistere. In questo modo, il processo lento che ha portato alla formazione dello skin della terra trova corrispondenza nel nostro corpo, risuona in esso, provocando un tuono di apertura della memoria, il quale libera immagini: immagini di vita pregressa, di vicinanza alla terra madre, che è proprio l’alta tecnologia elettronica di TPO a rimettere in scena. La centralità delle danzatrici in scena è legato proprio a ciò. Nessun atletismo, nessun balletto: le danzatrici prestano, piuttosto, il loro corpo alle forze della terra; i loro corpi sono, per così dire, intracutanei, pelle nella pelle, entrano e si confondono con la pella della terra; esse sono corpi-foglia, corpi-corteccia, corpi-colore che fanno da interfaccia tra mondo umano e mondo della natura, tra i processi lentissimi di formazione della natura ed il tempo della storia, il tempo umano. Cosa altro è il sogno, se non una interzona, un zona di comunicazione tra noi, qui, ed un altro stato delle cose, il quale risuona, però, in noi e produce immagini?
Il tema del sogno è il punto vivo di richiamo dell’azione scenica di TPO con la cultura aborigena dell’Australia, con il particolare ordine di sapere difeso da quella tradizione. Si dice che gli aborigeni fossero, anticamente, in grado di entrare in comunicazione reciproca diretta con il vicino e con la natura in una forma pre-linguistica, senza ricorso a parole, come se fossero in possesso di un sovrasenso, non colonizzato dalla parola scritta, in grado di entrare in risonanza dialogante con il vivente: come se comunicassero per via di immedesimazione, ovvero, per via di immagini interne. Cosa altro è il corpo come luogo delle immagini, se non il luogo di una risonanza tra gli ambiti della vita?
Secondo la versione raccolta da Jim Poultier del testo poetico aborigeno Dreamingtime, l’uomo “sognò di condividere il canto degli uccelli, dell’aurora, la danza dell’emù, l’ocra rossa del tramonto, le risa dei bambini”. Condividere significa, in questo caso, lasciarsi toccare dai suoni, dagli odori, facendo emergere dallo scrigno del corpo tutte le immagini che custodisce. Ecco il punto di congiunzione con la ricerca, assidua, innovativa, visionaria che TPO ha sviluppato intorno al tema del giardino, secondo la lezione datane da Gilles Clément. L’arte incontra la natura, nel momento in cui essa dismette la propensione architettonica, con cui ha imposto alla vita il nostro ordine del discorso. Lasciarla parlare, porsi in suo ascolto, rivolgere l’orecchio al suo fruscio, al suo linguaggio tremulo come uno ammasso di foglie che vuole dirci qualcosa, questo è il rovesciamento della direzione del linguaggio operato da TPO in Landskin, in cui la lingua diventa il veicolo con cui lasciamo che la natura, il vivente venga a parola. Ciò che la natura dice, allora, risveglia le immagini che sono in noi in letargo: immagini di canti, di tramonti.